Siamo entrati in pieno clima Ryder Cup, forse l’evento golfistico più atteso sulle due sponde dell’Atlantico. Il momento che segna l’inizio di questo periodo è quello delle cosiddette captain’s picks, le scelte del capitano.
Come noto la composizione delle squadre che si affronteranno a fine mese è determinata per metà dalla posizione dei giocatori nelle rispettive classifiche di Ryder che tengono conto dei risultati conseguiti. I primi sei entrano in squadra di diritto. Ma per gli altri sei giocatori da convocare è il capitano che decide di chiamare. Questa è la parte più discussa della competizione, quella che scatena polemiche e analisi, che divide tifosi e commentatori, quella che alla domenica sera farà dire a qualcuno “Ecco l’avevo detto io…” e a qualcun altro “Nessuno si poteva immaginare che…”.
È anche la parte che ci può far riflettere di più, come prima cosa sul senso stesso del decidere.
Ci sono momenti in cui i numeri non bastano.
Puoi avere tutte le statistiche del mondo, le tabelle di rendimento, i grafici sulla forma degli ultimi mesi. Ma arriva un istante in cui tocca, se sei il capitano, assumerti la responsabilità di una scelta che va oltre i dati. Non può rifugiarsi nell’algoritmo.
Deve guardare alla squadra come a un organismo vivo, con umori, equilibri, compatibilità. Deve chiedersi: “Chi saprà reggere il rough di Bethpage Black, con quella folla newyorkese rumorosa e feroce? Chi riuscirà a trasformare la pressione in energia, e chi invece rischia di sciogliersi?”.
Non esiste un ‘miglior giocatore in assoluto’. Esiste il giocatore giusto per quel momento, per quella squadra, per quel campo, per quella partita.
È ciò che Aristotele chiamava phronesis, la saggezza pratica: la capacità di deliberare bene non in astratto, ma nelle circostanze concrete.
A pensarci bene uno degli aspetti del fascino della Ryder Cup è perché in qualche modo ci identifichiamo con il capitano che, come spesso capita anche a noi nella vita, deve prendere decisioni importanti in condizioni di incertezza, pressione, conflitto di valori. Quando dobbiamo necessariamente scegliere, anche quando non controlliamo tutto e non possiamo prevedere con certezza la conseguenza delle nostre scelte.
A questo punto gli Stoici avrebbero sorriso: “Alcune cose dipendono da noi, altre no”, diceva Epitteto. Il capitano non controlla se un putt rotolerà dentro o fuori di pochi millimetri, ma controlla il modo in cui compone la squadra. È lì che si gioca la sua libertà: non nel dominio assoluto degli eventi, ma nell’assunzione di ciò che davvero gli appartiene. Questo vale anche per noi. Non controlliamo il mercato, il caso, la fortuna. Ma controlliamo il modo in cui rispondiamo a ciò che ci capita, il carattere con cui affrontiamo le situazioni.
Il filosofo contemporaneo Robert Kane, nel suo libro The Significance of Free Will (Il significato del libero arbitrio) del 1996, Kane ha proposto un’idea affascinante: la libertà non richiede che ogni nostra azione sia sotto il nostro controllo assoluto.
Ci basta avere la possibilità, in momenti cruciali, di prendere decisioni che chiama “auto-formanti”. Cosa significa? Significa che non tutte le scelte hanno lo stesso peso. Molte sono routine, risposte automatiche. Ma ogni tanto ci troviamo di fronte a un bivio reale, in cui due alternative sono entrambe vive e possibili. È lì che la nostra deliberazione diventa decisiva. È lì che, scegliendo, diventiamo ciò che siamo, formiamo il nostro carattere. Kane scrive: “Le decisioni auto-formanti rappresentano i momenti in cui diventiamo gli autori del nostro carattere.”
Pensiamo al capitano della Ryder Cup: può seguire la strada più sicura, scegliere i giocatori con più punti e più esperienza. Oppure può rischiare, inserire un giovane che sta avendo performance eccellenti ma non ha mai provato la tensione di un tee shot davanti a decine di migliaia di tifosi urlanti.
Qualunque decisione prenda, non sta solo componendo una lista: sta definendo se stesso come leader
La scelta non è solo tecnica: è auto-formante. Dice chi è, quali valori mette al primo posto, che idea di squadra vuole incarnare, come sarà ricordato dalla storia.
Il problema è che i valori in gioco non sono riducibili a un’unica misura. Da un lato c’è il merito statistico: i numeri dicono che un certo giocatore ha vinto più tornei, ha colpito più fairway, ha puttato meglio. Dall’altro c’è la chimica di squadra: quel giocatore sarà in grado di fare coppia, di condividere energie, di ispirare i compagni?
Come notava il filosofo Isaiah Berlin, i valori umani sono molteplici e spesso in conflitto. Non possiamo sempre ordinarli su un’unica scala.
È il dramma (e la bellezza) della scelta: anche decidendo bene, perdiamo qualcosa di buono. Non c’è decisione senza perdita.
Qui la visione di Berlin incontra quella di Kane. Non possiamo avere tutto: ogni scelta porta con sé rinunce. Ma proprio quelle rinunce ci costringono a mostrare chi siamo. È nei bivi veri, nei momenti di conflitto, che ci formiamo come individui. Prendete due fuoriclasse, entrambi irresistibili quando giocano da soli. Ma messi insieme scoppiano, non si sopportano. Cosa fare? Separarli significa rinunciare a un potenziale enorme, forzarli significa rischiare il disastro. Qui la scelta non è tra bene e male, ma tra due beni in conflitto. È l’essenza del pluralismo di Berlin, ed è anche l’essenza delle decisioni auto-formanti: non esiste una risposta oggettiva, c’è solo il coraggio di assumere la perdita e firmare col proprio nome la decisione.
Camminando tra l’erba alta del Bethpage Black, un caddie lo direbbe con parole semplici: “Non puoi sapere come uscirà la palla dal rough. Ma devi comunque scegliere un ferro e colpire”.
La decisione del Capitano assomiglia a quel colpo: non ha la certezza del risultato, ma ha la responsabilità di provarci. L’incertezza non è un difetto: è il terreno stesso della libertà. Senza incertezza non ci sarebbe scelta, ma solo meccanica.
La Ryder Cup, con la sua natura collettiva, amplifica tutto questo. Ogni pick è una dichiarazione: “Credo in questo giocatore, credo che questa squadra sia più forte con lui dentro.” È una decisione che plasma il carattere del gruppo. Ma è anche una lezione per la vita quotidiana. Quando scegliamo un lavoro invece di un altro, quando decidiamo di rischiare o di restare nella comfort zone, quando investiamo in una relazione o voltiamo pagina: non sono semplici atti di preferenza. Sono decisioni auto-formanti. Sono le Ryder Cup della nostra vita.
C’è poi un altro aspetto, spesso trascurato: come il Capitano comunica la sua decisione. Qui torna utile Marco Aurelio: “Se non è giusto, non farlo; se non è vero, non dirlo.” La verità non significa sbandierare ogni dettaglio ai media, ma parlare con chiarezza alla squadra. Dire ai giocatori scelti perché sono stati chiamati. Dire a quelli esclusi perché non è toccato a loro, senza umiliazioni. Una decisione può essere contestata, ma se è spiegata con rispetto diventa più facile da accettare. Una buona comunicazione della decisione ha altrettanto peso sul buon andamento della squadra della decisione stessa
E noi, quali sono le nostre captain’s picks? Alla fine, il fascino delle scelte del Capitano sta qui: ci specchiano.
Ognuno di noi ha le proprie captain’s picks nella vita: decisioni non determinate da regole automatiche, ma affidate al nostro giudizio.
Scegliere se cambiare lavoro o restare. Decidere se fidarsi di una persona nuova. Dare spazio a un’idea rischiosa o continuare con la sicurezza del già noto. Sono scelte che non possiamo delegare ai numeri. E sono proprio quelle che ci formano come individui. Non importa se tutto il resto della vita è routine: basta una manciata di decisioni come queste a definire chi siamo.
Che cosa possiamo imparare, allora, da queste scelte apparentemente lontane? Che anche nella vita quotidiana ci troviamo davanti a conflitti di valori: sicurezza vs. libertà, stabilità vs. crescita, fedeltà a un gruppo vs. ricerca di nuove opportunità. Non c’è algoritmo che decida per noi.
In quei momenti, possiamo fare due cose: accettare la perdita: capire che qualcosa di buono resterà fuori; riconoscere l’importanza del momento, non è una decisione qualsiasi, è un frammento di noi che prende forma. La scelta non è mai solo tecnica, è sempre esistenziale.
A fine settembre, al Bethpage Black, vedremo birdie, bogey, colpi miracolosi e errori banali. Il tabellone dirà chi ha vinto e chi ha perso. Ma ci sarà un altro tabellone, invisibile, che resterà più a lungo: quello delle scelte. Lì conterà non solo il risultato, ma il modo in cui sono state fatte. Con integrità, con coraggio, con la consapevolezza che certe decisioni non cambiano solo il risultato di un torneo, ma anche chi le prende.
Caddie filosofo: le scelte del capitano
