Negli ultimi mesi alcune opinioni autorevoli hanno rilanciato un’idea affascinante: il golf starebbe cambiando pelle, passando da sport eminentemente individuale a disciplina ‘corale’, dove squadra, franchise, dinamiche di gruppo e spirito di appartenenza diventano elementi centrali.
Se ne è parlato anche nel numero di novembre 2025 di Golf&Turismo dove ci si è chiesti se questa sia una rivoluzione necessaria: più spettacolo, più pubblico giovane, più narrativa condivisa. Secondo lo spirito incarnato nella lega LIV il cui obiettivo sarebbe quello di – riporto le parole dell’articolo – “salvare il nostro amato gioco spingendolo verso una modernità globale che passa attraverso anche un nuovo modo di intendere il golf giocato, non più esclusivamente individuale, anzi, il suo esatto contrario.”

Nello stesso numero, nella sua rubrica, Francesco Molinari — cervello analitico fra i più raffinati del circuito — sembra guardare con sospetto all’enfasi sul collettivo dato che intitola il suo articolo “Il golf resta individuale”.

Chi ha ragione e chi ha torto? Forse non è la domanda giusta, perché come prima cosa va compreso un paradosso che è alla base di questo gioco: il golf è nato come sport solitario, ma non è mai stato ‘solo’.

L’immagine retorica più diffusa del golf è quella dell’uomo (o della donna) solo nel vento, una pallina, un colpo, un campo che non perdona e nessuno da incolpare se non sé stessi. È un’immagine potente, quasi esistenzialista: Kierkegaard avrebbe potuto ambientare Timore e tremore sul tee della 18 di Carnoustie senza cambiare una virgola del suo stile.

Eppure, storicamente, questa narrazione è falsa. Il golf è sempre stato un gioco corale in forma privata:

  • C’è una squadra nascosta: caddie, allenatore, preparatore atletico, mental coach, fitter, fisioterapista.
  • C’è una squadra emotiva: la famiglia che supporta, gli amici che accompagnano, gli sponsor che credono.
  • C’è una squadra epistemica, relativa al sapere, parafrasando un’idea del filosofo John Rawls: quel contesto di conoscenza condivisa che permette al giocatore di comprendere il proprio gioco grazie agli occhi degli altri.

Il golf competitivo è individuale, ma la sua ecologia è sempre stata collettiva.

C’è quindi un fraintendimento di fondo: quando si sottolinea la ‘novità’ del golf come gioco di squadra, si sta riportando alla luce una realtà antica. Si sta dando forma visibile a ciò che per decenni è rimasto invisibile.

E allora perché c’è più di uno scettico verso il golf di squadra? Perché teme, credo, una confusione concettuale: l’idea che trasformare il golf in sport di squadra possa cancellare la responsabilità epistemicadel singolo, cioè la capacità di assumersi il proprio colpo senza cercare scuse nel gruppo. In filosofia morale, Elizabeth Anscombe chiamava tutto questo intenzione pura: il gesto è tuo, il fine è tuo, la responsabilità è tua. Nessun team potrà mai tirare il colpo al posto tuo. Concetto ben espresso da Molinari nel suo articolo: “anche in Ryder. Si è contenti per la vittoria ma aver portato zero punti o cinque fa la differenza. Molti tengono al loro record personale. Ovviamente vogliono che la squadra vinca, però si concentrano comunque sui loro match.”

Il punto interessante è che Aristotele aveva già chiaro tutto questo, naturalmente senza conoscere il golf, ma comprendendo i movimenti più profondi dell’etica umana.

Nell’Etica Nicomachea Aristotele sostiene che la virtù è sempre personale ma fiorisce nel contesto di una comunità. Non esiste coraggio senza un individuo coraggioso, ma non esiste individuo virtuoso senza polis, senza un ambiente che lo sostiene, lo sfida, lo regola.

Il golf è aristotelico fino al midollo:

  • Il colpo è personale.
  • La preparazione al colpo è inevitabilmente collettiva.

Le nuove formule a squadre (LIV, TGL, formati Ryder-style) non cambiano questo equilibrio: lo rendono più evidente. Fanno emergere il fatto che nessun professionista moderno è davvero solo — ma allo stesso tempo nessuna squadra può risparmiargli la fatica dell’ultimo metro.

Il filosofo Thomas Nagel, parlando di etica, introduce il concetto di moral luck: la fortuna morale. Siamo giudicati per azioni che dipendono da mille fattori esterni (vento, rimbalzi, stato del green) ma che comunque ricadono su di noi.

Quale sport incarna la moral luck più del golf?

  • Hai scelto il ferro giusto, ma la raffica arriva mezzo secondo dopo.
  • Hai letto la linea correttamente, ma il green non è stato perfettamente curato.
  • Hai giocato il colpo che volevi, ma la pallina rimbalza su un sasso invisibile.

In un contesto così sensibile alla contingenza, introdurre la dimensione della squadra rischia di creare un ulteriore alibi concettuale: ‘abbiamo perso’, ‘non ho giocato male io, abbiamo avuto una brutta giornata’. Il ‘noi’ a volte è una coperta che copre la diluizione della responsabilità. Il fatto che il golf possa perdere la sua radicale chiarezza: sono io e solo io a dover capire cosa non ha funzionato. È perciò legittimo il timore che lo spettacolo del team offuschi la tragica grandezza dell’individuo. Che il golf smetta di essere quel laboratorio di responsabilità che lo ha sempre reso unico

I filosofi  Philip Pettit e Christian List hanno sviluppato un concetto utile per questo ragionamento: quello di group agency. Un gruppo può avere un’intenzionalità propria, diversa dalla somma dei suoi membri. Applicato al golf, questo significa che una squadra non sostituisce l’individuo: lo amplifica. Permette al singolo di giocare meglio, ma non di gioca al posto suo. Una buona squadra — quella che Aristotele avrebbe chiamato virtuosa — serve proprio a creare un contesto in cui la responsabilità del singolo non si offusca, ma si illumina.

Questo tipo di squadra nel golf c’è sempre stata, anche se all’apparenza era invisibile. La ‘novità’ sembrerebbe invece essere un’altra: la squadra garantirebbe quel livello di spettacolarità richiesto dal golf televisivo che ha bisogno di narrazioni collettive.

Il golf non ha un grande appeal per il grande pubblico perché: è lento; è difficile da capire per i non addetti; i personaggi individuali — tranne 3 o 4 super-star — non generano grandi tribù di fan.

I team sono una facile strada per risolvere o almeno attenuare di effetti di tutto questo: introducono colori, appartenenze, rivalità; creano storie che funzionano anche se un giocatore ha una giornata storta; rendono fruibile lo sport a chi non distingue un wedge da un ferro 9. Qualche dubbio sull’efficacia di questa ricetta ce l’ho, come ho già espresso nel mio precedente articolo “Il LIV e il lavoro del golfista” del 29 Ottobre 2025, ma ammettiamo che questa trasformazione potrebbe avere ricadute positive. Però è bene essere onesti e sottolineare che è una trasformazione di superficie, narrativa. Non è una trasformazione ontologica del gioco, non ne cambia l’essenza: il golf giocato rimarrà individuale, il golf raccontato può essere collettivo.

Penso che il golf stia vivendo il suo momento ‘parmenideo’: sembra cambiare, ma nella sostanza resta se stesso. Così come il filosofo greco Parmenide ci diceva che il mutamento è un’illusione, allo stesso modo la ‘trasformazione in sport di squadra’ è meno radicale di quanto sembri. È un cambiamento estetico, non etico. La squadra nel golf non è una novità: è un’emersione di ciò che è sempre esistito. È la formalizzazione di ciò che è sempre stato informale.

Il golf del futuro sarà più colorato, più televisivo, più narrativo?

Va benissimo così, anche se un po’ di ansia mi prende ad immaginare gruppi di ‘tifosi’ che non praticano il nostro sport e lo seguono solo come supporter dell’uno o dell’altro team come avviene nel basket o nel calcio.

E noi, golfisti dilettanti? Che lezione possiamo trarre? Paradossalmente, una molto utile. I dilettanti giocano spesso troppo soli: isolati mentalmente, incapaci di chiedere aiuto, convinti che ogni errore sia un fallimento personale. E invece abbiamo tutti bisogno di una piccola squadra: un maestro che ci conosce davvero, un coach mentale o un counselor filosofico che ci aiuta a non sabotarci, un amico che ci dice la verità quando stiamo raccontandoci scuse.