Nel panorama attuale del golf professionistico maschile, la questione dell’etica del lavoro si intreccia con giochi di potere geopolitico, logiche di mercato e valori sportivi.
L’ultimo elemento a sollecitare una riflessione è la recente notizia, comparsa anche sul Financial Times – e oggetto il 6 ottobre di un articolo a firma della redazione di Golf&Turismo – che LIV Golf sta accumulando perdite gigantesche: oltre 1,4 miliardi di dollari di perdite complessive secondo il recente bilancio UK, con una perdita di 461,8 milioni di sterline nel solo 2024.
Il costo dei giocatori è stato dall’inizio dell’attività quasi undici volte superiore rispetto ai ricavi generati nello stesso periodo. Questo mette a nudo un paradosso già sospettato: dietro la facciata luccicante dei mega-contratti e dei montepremi stratosferici, vi è una struttura che, ad oggi, non appare autosostenibile. Il modello sembra basarsi su un finanziamento illimitato da parte dello stato saudita – cioè del Public Investment Fund (PIF) – piuttosto che su una redditività ‘di mercato’. Partendo da questo dato ‘contabile’, voglio fare una riflessione filosofica:
Quale concezione del ‘lavoro’ – nel senso ampio di impegno, responsabilità, misura – è in gioco?
Nell’economia classica, sviluppata principalmente da Adam Smith e David Ricardo, il valore di scambio di una merce è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per produrla: una barretta d’acciaio vale relativamente poco ma se diventa la testa di un wedge moltiplica il proprio valore per centinaia di volte. La ricchezza è data dal possedere molti beni dotati di un alto valore di scambio. Pertanto, il lavoro genera entrambi: produce beni che aumentano la ricchezza e la quantità di lavoro necessario determina il valore di scambio di quei beni.
Ma qual è il ‘lavoro’ di un giocatore professionista, quello che dovrebbe generare valore e ricchezza?
Per il giocatore professionista, il lavoro non è solo l’atto fisico della gara, la prestazione, ma un’attività a tutto tondo: allenamenti, viaggi, gestione della stampa, rapporti con gli sponsor e partecipazione agli eventi. La ricchezza che genera è multilivello: legata al risultato, ovvero i premi in denaro che riceve per la sua performance sportiva; legata alla fama sotto forma di ingaggi e sponsorizzazioni.
Infine, il golfista genera valore per l’intero ecosistema: tornei, campi da golf, media, produttori di attrezzature. Perciò il lavoro del golfista professionista genera valore di scambio e, conseguentemente, ricchezza in un senso che si discosta dalla produzione materiale tipica dell’economia classica (come la fabbricazione di un bene), ma che è perfettamente coerente con la teoria del valore nel capitalismo avanzato dove il valore deriva sempre più dal lavoro impiegato per rendere una merce desiderabile e visibile.
Il filosofo francese Guy-Ernest Debord sostiene, nel suo libro del 1967 La società dello spettacolo, che la merce è passata dall’essere un oggetto tangibile all’essere un oggetto la cui utilità è stata sostituita dal suo significato spettacolare: non compriamo solo prodotti, compriamo identità, emozioni, immagine e relazioni. Il golfista professionista è l’esempio perfetto di questo: non è solo un lavoratore, è una merce e un generatore di contenuti. Non vende esclusivamente il suo risultato sportivo ma il suo status di icona e la sua performance come evento mediatico. Il valore di scambio del golfista si configura come una rendita basata sull’attenzione che lui è in grado di generare. A creare valore non è la fatica della produzione, ma la fatica della distinzione e della visibilità. L’allenamento rigoroso e la vittoria servono unicamente a mantenere la distinzione che lo rende un brand unico.
Ogni golfista professionista ha iniziato per passione e non per ricerca del profitto e ha continuato a giocare prima di tutto per amore del gioco e si trova ora nel pieno di una moderna crisi di alienazione.
Secondo Max l’alienazione si verifica quando il lavoratore è separato dal prodotto del suo lavoro, dal processo lavorativo stesso, dalla sua essenza umana. Per il golfista, questa separazione è evidente: il ‘prodotto’ reale del golfista non è più la vittoria sportiva o il colpo perfetto ma l’audience che genera; quando un golfista scende in campo, la sua attività non è primariamente la competizione, ma un lavoro di performance e di branding. Parafrasando Marx possiamo dire che il golfista professionista “quando gioca è a casa, ma quando produce valore, non è a casa”: il campo da golf, luogo della sua passione, diventa la fabbrica dell’immagine che prende il sopravvento sulla gioia del gesto atletico. In altre parole, ciò che gli piace realmente fare – giocare – produce solo indirettamente valore e ciò che genera valore – curare il proprio brand – è ciò che meno lo appassiona e talvolta lo soffre proprio.
Un circuito come il LIV Golf rappresenta l’apice di questa alienazione
Remunerando i giocatori con contratti garantiti e cifre astronomiche che superano di gran lunga i montepremi effettivi —basati quindi più sul valore del brand che sul risultato della gara — il LIV sancisce formalmente che il gioco è secondario. Il golfista non è pagato per quanto è bravo, ma per quanto è famoso. Il suo valore di scambio non risiede più nel tempo di lavoro (ore di allenamento) o nel successo sportivo (valore oggettivo), ma nell’attenzione che riesce a calamitare su di sé e, di conseguenza, sugli eventi cui partecipa. In altri termini, il lavoro non è più giudicato con una certa qual oggettività in base ai risultati ma ‘comprato’ e si sa, chi compra, compra ciò che più gli piace. Ed è in questo punto che l’equilibrio etico vacilla.
Ma perché questo modello non genera il profitto sperato?
Forse perché il pubblico che segue un torneo di golf è composto in maggioranza da golfisti, giocatori più o meno assidui ma giocatori, contrariamente a quanto avviene per altri sport: quanti tra il quasi 128 milioni di spettatori che hanno seguito in TV l’ultimo Superbowl – gara più importante del campionato di football americano – sono anche praticanti di quello sport? Perciò forse l’elemento spettacolare, lo show di contorno, è per il pubblico del golf meno rilevante dell’apprezzare il gesto tecnico, la strategia di gioco, del valutare la tenuta psicologica del giocatore. Per un pubblico assuefatto ai tempi rapidi dello sport televisivo, il golf è un gioco lentissimo: nel tempo che un giocatore studia la linea del putt nel basket hanno segnato almeno un paio di canestri. Per un appassionato golfista invece la parte spettacolare è al massimo un contorno, non certo la portata principale: a lui interessa trarre ispirazione dal gioco dei campioni e, forse, imparare qualcosa per migliorare il proprio di gioco.
Ciò potrebbe spiegare perché il Circuito LIV a oggi non è sostenuto da un’economia organica: le perdite accumulate indicano che la concentrazione sul ‘lavoro di contorno’ (cioè la spettacolarizzazione e l’immagine) non basta a generare valore duraturo. Vi è, come al momento sembra inevitabile, necessità di un sovvenzionamento esterno illimitato. Questo tra l’altro può finire per ridurre la responsabilità individuale e strutturale: chi lavora sa che comunque il deficit sarà coperto da chi finanzia e quindi la propria prestazione è pressoché irrilevante.
Un circuito che genera perdite gigantesche mette in discussione anche la propria legittimità morale: chi garantisce che quei costi saranno sostenuti?
Qual è la responsabilità verso gli stakeholder – sponsor, tifosi, territori, giovani golfisti – che potrebbero essere penalizzati se il modello collassa o semplicemente se chi tiene i cordoni della borsa decide di smettere di finanziare a fondo perduto? Uno sponsor si può sostituire, è uno ‘dei tanti’, un contratto TV anche ma un finanziatore unico come il PIF no, se decide di chiudere, chiude tutto. Da qui la domanda etica: qual è la qualità del lavoro che questo modello produce se il modello stesso non regge da solo?