C’è un istante, subito prima dell’inizio del backswing, in cui tutto dipende dalla qualità della tua intenzione. Non la speranza vaga di ‘arrivare in bandiera’ e nemmeno il desiderio di ‘non sbagliare’, ma la volontà di eseguire il colpo in un certo modo: “Sto per fare un fade con la palla che parte dal bordo sinistro del fairway e rientra al centro”.

È qui che la filosofia di G.E.M. Anscombe, filosofa inglese e autrice del libro di Intenzione, entra sorprendentemente nel golf.

Per Anscombe, un’azione è intenzionale quando tu, che la stai facendo, sai rispondere alla domanda “Perché la stai facendo?”. Non basta dire “sto muovendo un ferro 8” (quella è una descrizione esterna).
Se ti chiedi “Perché?” e rispondi “per raggiungere il green in sicurezza senza andare troppo lungo”, allora quello che fai ha senso sotto quella descrizione: stai davvero giocando un colpo di golf, non solo facendo un movimento con le braccia.

Anscombe usa il concetto di ‘forma’ per distinguere le azioni compiute intenzionalmente, cioè con un obiettivo specifico, da semplici movimenti fisici, definendo la forma come la descrizione che corrisponde alla ragione per cui l’agente ha compiuto quell’azione e che l’agente stesso sarebbe in grado di fornire.

In altre parole, quando chiediamo “Perché?” di un’azione e chi l’ha compiuta risponde con la descrizione della motivazione che guida il suo comportamento, quella risposta è la ‘forma’ dell’azione intenzionale, che la distingue da un movimento casuale.

Anscombe chiama practical knowledge, cioè conoscenza pratica, ciò che hai mentre agisci: non ti serve osservarti dall’esterno per sapere cosa stai facendo, lo sai dall’interno perché hai deciso quel gesto, per quel motivo.

In campo si traduce così

Se la tua intenzione è chiara e la puoi descrivere – “colpisco un ferro 8 per atterrare un metro prima del green e far rotolare la palla verso la bandiera” – allora sai esattamente che cosa stai facendo. Se invece la tua ‘intenzione’ è solo “speriamo vada bene”, non hai una vera guida interiore, e il gesto resta vago. Tradotto in campo: “l’azione intenzionale sotto una certa descrizione” non è un’etichetta posticcia: è l’assetto pratico che comanda micro-decisioni (linea, velocità, faccia del bastone, ritmo) e che risponde all’unico “Perché?” che conta: perché questo colpo, così, adesso.

Intenzione è diversa da desiderio, intenzione è diversa da previsione

Una delle lezioni più utili che un golfista può ricevere dalla filosofia è distinguere ciò che si intende da ciò che si desiderao prevede. Posso desiderare un eagle, prevedere che ci sarà vento, ma l’intenzione governa il come: “gioco un lay-up perché il rischio di finire nell’ostacolo d’acqua non è coerente con il mio obiettivo di par”. Per la filosofia contemporanea l’intenzione è un atteggiamento pratico che stabilizza il piano d’azione e coordina i mezzi, non un impeto motivazionale.

Jack Nicklaus lo disse con brutale semplicità:

“Non colpisco mai un colpo, nemmeno in pratica, senza avere nella testa un’immagine molto nitida di ciò che voglio ottenere. Prima vedo la palla finire esattamente dove deve, poi vedo la sua traiettoria e infine vedo me che eseguo lo swing che renderà reali quelle immagini”.

Questa frase esprime perfettamente l’idea di Anscombe: l’intenzione non è un commento all’azione, è ciò che rende quell’azione quella cosa lì e non qualcos’altro. La visualizzazione potrebbe sembrare un’operazione scaramantica – “vedo il colpo andare in buca e ci andrà” – invece quando è descrittiva e operativa è la traduzione concreta del “sapere che cosa sto facendo” in termini di movimento, tempo, spazio. Se l’immagine è povera (“Colpiscila bene”), l’intenzione resta vaga; se è troppo astratta (“Sii perfetto”), l’azione si paralizza.

Routine: l’intenzione va formulata nel momento giusto

Annika Sörenstam ha reso celebre una routine di 24 secondi, precisa al secondo lungo i quattordici anni di carriera. Dietro il numero non c’è mania del cronometro, ma la comprensione che l’intenzione ha bisogno di un momento e tempo preciso per essere formulata. Questo è il modo migliore per impedire che la domanda “Perché?” si riapra nel momento sbagliato. Sorenstam, riprendendo il metodo sviluppato dalle coach Pia Nilsson e Lynn Marriott, divide la routine in ‘Think Box’ – fase preparatoria in cui si elabora una strategia, si pianifica il colpo, si considerano tutte le variabili e si formula l’intenzione – e ‘Play Box’ – fase di esecuzione in cui si attraversa una linea immaginaria per impegnarsi nel colpo, fidarsi del proprio istinto ed eseguire lo swing senza ulteriori pensieri. La routine in ’24 secondi’ funziona perché crea una netta separazione tra pensiero e gioco, evitando confusione e pensieri eccessivi durante l’esecuzione e il passaggio della ‘linea di impegno’ simboleggia una decisione ferma, che promuove fiducia e risolutezza.

Anche Tiger Woods spiegando il senso della sua nota routine di allenamento per i ferri chiamata ‘nove finestre” – tre tiri per tre diverse altezze, alto/medio/basso, × tre traiettorie, dritto/draw/fade -sottolineava che è come avere una griglia davanti agli occhi: nove finestre possibili e tu devi puntarne una. Decidere e poi impegnarsi (commit) al 100% su quella scelta. Se la tua intenzione è “faccio un colpo medio-dritto”, allora tutto lo swing prende forma da lì: la linea di mira, l’allineamento dei piedi, la velocità, la fiducia nel gesto. L’intenzione dà struttura al movimento: il corpo segue la mente che ha già scelto. Il contrario del commit è la doppia intenzione: se al momento di tirare pensi “forse un fade… ma se provassi a tenerlo dritto?”. Quel dubbio spacca lo swing a metà: il corpo non sa più quale comando seguire, e il risultato è un colpo impreciso, spesso goffo. Senza commit, il colpo resta sospeso tra due possibilità e perde la sua ‘forma’ per dirla con Anscombe.

Molti errori sul campo nascono dall’errore nell’intenzione.

Spesso gli errori sul campo nascono proprio errori nella formulazione dell’intenzione, ad esempio dal desiderio travestito da intenzione: “Voglio birdie” oppure “Speriamo che entri” non è un piano. In questo modo l’azione perde quella forma pratica descritta da Anscombe: non sai più cosa stai facendo, stai limitandoti a osservare te stesso sperare.

Da un punto di vista golfistico un’intenzione efficace deve rispondere a tre domande semplici:

Qual è il mio bersaglio iniziale, a cosa miro?

Che forma deve avere il volo o il rotolamento?

Dove deve finire o come deve fermarsi?

Sul campo puoi fare qualcosa per sviluppare un’intenzione che sia davvero efficace: prima di ogni colpo, formula a voce bassa la descrizione della tua intenzione;

dopo 9 buche, annota 3 colpi in cui l’intenzione era chiarissima e 3 in cui era confusa, scrivi che cosa mancava – bersaglio iniziale, velocità, traiettoria?

In una sessione di allenamento, scegli una delle ‘finestre’ di Tiger Woods e non cambiare per 10 colpi, in questo modo alleni la perseveranza dell’intenzione contro la tentazione di variare a ogni esito.

Anscombe ci insegna che l’intenzione è il modo in cui sai cosa stai facendo mentre lo fai. Nel golf, o stai eseguendo il colpo che intendevi perché ne hai fatto una descrizione chiara oppure stai inseguendo un esito. Il punteggio, paradossalmente, arriva quando smetti di volerlo e inizi a voler fare esattamente il colpo che hai descritto.