La battaglia mediatica tra PGA Tour e Superlega ci riporta alla mente il tempo in cui Howard Hughes, l’uomo più ricco d’America, provò a comprare il golf professionistico. Di fatto voleva che Arnold Palmer e Jack Nicklaus giocassero a Las Vegas nel suo Desert Inn ma non ottenne altro che un secco rifiuto. In realtà i due non avevano bisogno di giocare d’azzardo in quel momento delle loro rispettive lanciatissime carriere.

Più tardi, quando Hughes costruì il suo impero di casinò in un’industria che in gran parte era controllata dalla mafia, propose di “stabilire Las Vegas come la capitale del golf mondiale”. Disse:

Sono pronto a mettere in palio montepremi che supereranno di gran lunga qualsiasi altro, 500 mila, persino un milione a torneo!

Stiamo parlando del 1970, quando il montepremi dello U.S. Open era inferiore ai 200mila dollari… Anche l’ambizioso Hughes dovette accantonare mestamente il suo progetto.

I soldi sono sempre stati una costante nel golf professionistico. A Nicklaus fu offerto un milione per giocare match televisivi contro Johnny Miller, ma rifiutò perché disse che avrebbe danneggiato il tour. Il golf sino ad ora è sempre stato preservato dall’integrità delle sue stelle, che hanno messo il gioco al di sopra dei  propri interessi.

Greg Norman, oggi al centro mediatico per il suo botta e risposta con Jay Monahan, Commisioner del PGA Tour, aveva già provato con l’aiuto di Fox e Rupert Murdoch a creare in passato un tour parallelo. Oggi rieccolo all’attacco, questa volta finanziato dal governo saudita e da Mohammad bin Salman.

Il Washington Post lo ha definito “denaro insanguinato”. Un giocatore che ha vissuto per anni in Medio Oriente mi ha confidato che con il governo di Salman non si può mai stare tranquilli: le cose possono andare bene e poi dal nulla, cambiare radicalmente senza motivo.

Cifre stellari

I giocatori del tour di oggi guardano con invidia ai contratti delle stelle di altri sport americani, ma devono anche tenere a mente che i ricavi totali della NFL (pre-pandemia) erano di circa 16 miliardi di dollari, quella della MLB di 10,7 miliardi e la NBA fatturava 8,3 miliardi. Il PGA Tour nel 2022 ha chiuso con un ricavo di 1,5 miliardi. Visti questi numeri si potrebbe per assurdo dire che il golf professionistico sia uno sport minore paragonato a football, baseball e basket in America.

I top player del golf sono già ricchi e famosi e probabilmente lo diventeranno ancora di più nei prossimi anni se non sconvolgeranno l’equilibrio di cui oggi gode il nostro sport. Il compianto Mark McCormack, fondatore di IMG, mi confidò che il golf è migliore di tutti gli altri sport perché ha una struttura in cui i quattro principali major maschili sono gestiti da altrettante realtà separate dal PGA Tour (Augusta National, PGA of America, USGA e R&A).

“È un sistema ben bilanciato a beneficio del gioco del golf – affermò Deane Beman, il Commisioner del PGA Tour dal 1974 al ‘94, che mal digeriva questo asset. Beman però ebbe il merito di generare molte più entrate di quanto il circuito spendeva, creando di fatto una solida base per i suoi successori, Tim Finchem e Jay Monahan, che hanno poi sapientemente coltivato e sviluppato.

La gestione della liquidità ha dato stabilità al tour e ha consentito di aumentare anno dopo anno i premi passando indenne recessioni economiche, l’incertezza degli sponsor, l’11 settembre e la pandemia. Di fatto i giocatori del PGA Tour sono stati isolati dal mondo reale e da quello che accadeva. Chip Beck, a proposito di un torneo che aveva come prima moneta di 360mila dollari, disse: “Alcune persone devono lavorare un anno intero per mettere insieme questa cifra”. E la sua frase è del 1988…

Da dove viene allora la forza del golf? Il tour ha beneficiato dell’aumento vertiginoso dei diritti media, delle sponsorizzazioni e di ottimi manager. Un esempio è il modo in cui i Commisioner hanno gestito i gettoni di presenza ai vari tornei. Ogni gara è impostata con un montepremi che appare meritocratico in base al risultato ma in realtà sono i top player a portare i fan e i media.

Vige la regola 20-80: il 20% dei giocatori genera l’80% delle entrate. Senza i big il modello di business non funziona ma il tour ha bisogno anche delle comparse per mettere in scena il suo show.

Gli sponsor del torneo possono assicurare che le stelle si presentino offrendo loro un fee garantito ma al PGA Tour questo approccio non è mai piaciuto e molto tempo fa ha bandito il cosiddetto ‘pay-for-play’. I grandi gruppi hanno bisogno della forza del marketing delle star ben oltre la settimana di un torneo, così il PGA è arrivato con loro a un compromesso. Sponsor come Workday, RBC, MasterCard e Zurich hanno i loro team di ambasador che compaiono in spot pubblicitari, intrattengono i clienti e, tra l’altro, giocano nei loro tornei. Il gettone di presenza appare quindi sotto un’altra voce diventando vantaggioso per tutti, giocatori, sponsor e circuito stesso.

Il PIP

Il nuovo Player Impact Program (PIP) che riparte un bonus di 40 milioni di dollari ai migliori influencer del gioco è un’altra mossa intelligente del PGA Tour per tenere sotto controllo Mickelson e altre stelle del suo calibro. Le entrate sportive sono in aumento ovunque, dal montepremi dello U.S. Women’s Open, quasi raddoppiato, al NCAA (la National Collegiate Athletic Association, organizzazione che gestisce le attività sportive degli atleti che partecipano ai programmi sportivi di 1268 college e università in Stati Uniti e Canada), che consente agli atleti dei college di vendere sponsorizzazioni e merce.

La NFL assegna poco meno del 50% delle sue entrate ai giocatori, il PGA Tour il 55, 641,7 milioni all’anno. Si tratta di circa di 429 milioni di montepremi ufficiali per il 2022 compresi i major (379,3 milioni senza gli Slam), un aumento del 16,9% rispetto al 2021.

Forse di fronte a queste cifre i pro del PGA Tour dovrebbero soffermarsi, riflettere e apprezzare. Ognuno di loro, già ricco e famoso, quando riceve un’offerta che sembra troppo bella per essere vera, dovrebbe porsi la vecchia e famosa domanda di sempre: cosa farebbero Jack e Arnie?