A inizio novembre scorso, dopo mezzo secolo di onorata carriera, l’European Tour è stato archiviato e al suo posto è nato il DP World Tour. Una svolta epocale e una vera e propria rivoluzione scaturita dalla necessità di contrastare lo strapotere del PGA Tour e di ridare smalto, interesse economico e mediatico a un circuito che, anche a causa della pandemia, non stava certo navigando in buone acque.

La fine di un’epoca è stata resa nota a inizio novembre 2021 a Dubai in una conferenza stampa alla presenza del sultano Ahmed bin Sulayem, presidente e Ceo di DP World. 

Quello che si è aperto il primo gennaio 2022 è un golf senza più frontiere e a più ampio respiro a cominciare dal nome. DP World è una multinazionale con sede a Dubai attiva nel trasporto e nella logistica. Il gruppo nel 2018 ha fatturato 8,5 miliardi di dollari e ha deciso di investire ulteriormente nel golf.

La collaborazione con European Tour risale al 2009 quando la multinazionale divenne presenting sponsor della Race to Dubai, al Jumeirah Golf Estates. Dal 2012 la gara si chiama infatti DP World Tour Championship. DP World è poi diventata official partner del circuito nel 2015 e ora official title partner.

Grazie ai petroldollari degli emiri per la prima volta il montepremi totale del circuito supererà i 200 milioni, con un nuovo minimo garantito per i montepremi di almeno 2 milioni. Saranno 47 i tornei in programma nel 2022 in 27 differenti paesi, inclusi nuovi eventi che si disputeranno negli Emirati Arabi Uniti, in Giappone, in Sudafrica e in Belgio. 

Cinque le Rolex Series previste: l’Abu Dhabi HSBC Championship, lo Slync.io Dubai Desert Classic, il Genesis Scottish Open, il BMW PGA Championship e il DP World Tour Championship che chiuderà come sempre la stagione. Per la prima volta saranno presenti tre tornei ‘co-sanctioned’, ovvero validi anche per il PGA Tour: il già citato Genesis Scottish Open, il Barbasol Championship e il Barracuda Championship, risultato dell’alleanza strategica tra due i tour principali del golf professionistico maschile.

Ma se da una parte, negli Emirati Arabi Uniti, c’è il desiderio di allargare i confini del massimo circuito europeo, poco distante da lì, in Arabia Saudita, è nata da qualche anno la necessità di rifarsi l’immagine proprio attraverso il golf. Le cifre da capogiro investite nel settore sportivo possono essere viste sotto molteplici chiavi di lettura. Una di queste, porta dritta all’ennesimo caso di sportwashing, la volontà cioè di usare lo sport per ripulirsi l’immagine. E, diciamocelo, l’Arabia Saudita, qualche macchia legata al mancato rispetto dei diritti umani ce l’ha. 

Il golf è solo l’ultimo escamotage usato dai sauditi. Prima di lui molti sport come la boxe e il calcio, solo per fare un paio di esempi, hanno trasferito il proprio head quarter in Medio Oriente. Propaganda mediatica o arma di distrazione di massa, poco importa. L’Arabia Saudita in questi ultimi anni sta usando mediaticamente lo sport a proprio favore.

Per dare lustro alla propria immagine, i sauditi hanno investito imponenti dosi di denaro su un’infinità di sport dalla Formula 1 al tennis, dal calcio alle corse dei cavalli fino ad arrivare al golf. Tra le novità degli ultimi tre anni anche la svolta “in rosa”. Nel 2019 è infatti stato organizzato il primo torneo dedicato alle proette europee con ben un milione di montepremi, una cifra assolutamente fuori dal comune per il Ladies European Tour. 

La nuova lega saudita

Ha fatto e fa tutt’ora parlare di sé anche il Saudi International, evento dell’Asian Tour. Attorno a questa gara si è scritto di tutto e di più. Sono stati numerosi i giocatori dei due massimi circuiti mondiali a prendere una posizione contro questo strapotere dell’Arabia Saudita. Due su tutti, Tiger Woods e Rory McIlroy che nel 2019 hanno rinunciato a un ingaggio di tre milioni di dollari rifiutando, di fatto, l’invito a prendere parte alla competizione. “Non sono un politico, io gioco a golf. È una questione di moralità”. 

Questa la frase uscita dalla bocca dei due fuoriclasse alludendo al fatto che nessuno deve dimenticare che i petroldollari arrivano da un Paese dove i diritti umani non sono poi tanto diritti. 

Dopo di loro, altri campioni del calibro di Sergio Garcia e  Justin Rose hanno deciso di non prendere parte al torneo delle polemiche. Non si può dire lo stesso di altre importanti personalità del nostro sport.  Se da un lato ci sono giocatori disposti a rinunciare a montepremi da capogiro, dall’altro ce ne sono che, al contrario, hanno risposto positivamente all’invito saudita.

Nell’ultima edizione del febbraio scorso hanno preferito l’Arabia alla California Dustin Johnson, che ha vinto nel 2019, si è classificato secondo nel 2020 e ha calato il bis di successi nel 2021. In campo anche il nostro Matteo Manassero, protagonista assoluto durante la prima giornata di gara. Tra i big anche gli statunitensi Xander Schauffele, Bryson DeChambeau, Phil Mickelson, Patrick Reed e Tony Finau. E ancora: l’australiano Cameron Smith, il belga Thomas Pieters, gli inglesi Tyrrell Hatton, Lee Westwood, Tommy Fleetwood, Ian Poulter e Paul Casey e l’irlandese Shane Lowry, che ha dovuto controbattere al mare di critiche riversatigli addosso. 

“Anche se oggi il Saudi International non è più una gara del DP World Tour ma dell’Asian, io ho un contratto per giocare là e non vedo alcun motivo per cui mi avrebbero dovuto vietare di farlo. Sono un giocatore professionista e faccio questo di mestiere, non sono un politico. Il mio compito è quello di fare del mio meglio in campo senza che la politica influenzi i miei giudizi. Mi guadagno da vivere giocando a golf, lo faccio per me stesso e per la mia famiglia e cerco di prendermi cura di loro”.

Ulteriore mossa è l’entrata nella scuderia saudita di Greg Norman. Lo Squalo Bianco è infatti il nuovo Ceo della Liv Golf Investments, società che ha il Public Investment Fund di proprietà del governo saudita come azionista di maggioranza che, tra le diverse iniziative sportive, ha sostenuto da subito proprio il Saudi International. 

L’australiano ex numero uno del mondo ha le idee molto chiare ed è intenzionato a far crescere il golf nei paesi emergenti mettendo a tacere le critiche: “Dicono che io sia uno strumento per ripulire, attraverso il golf e lo sport, l’immagine dell’Arabia Saudita. Non è così. 

Sono tanti i paesi che in passato hanno fatto cose orribili, pensiamo agli Usa e alle discriminazioni razziali.  Sono stato spesso di recente in Arabia Saudita e ho potuto vedere con i miei occhi i cambiamenti e i progressi avvenuti”.

Gli sforzi di Norman sembrano andare in fumo facendo vacillare le certezze e la credibilità della Superlega araba dopo i numerosi rifiuti da parte dei top player. L’ultimo in ordine di tempo è Bryson DeChambeau che si unisce a McIlory, Rahm, Koepka, Thomas Morikawa e Dustin Johnson, segno che, a volte, i dollari non comprano le persone né tanto meno lo spettacolo.

Rubando le parole dei giocatori del Tour: “Non siamo qua a fare politica” ma, l’idea che si arrivi in Arabia Saudita per giocare una partita di calcio o un torneo di golf e si possa perorare la causa delle attiviste per i diritti delle donne in carcere o dei dissidenti lasciati a marcire in prigione è semplicemente ingenua o colpevole. 

Stare al gioco dello sportwashing significa accreditare l’immagine finta e patinata di un paese moderno, aperto e avviato alle riforme. Alla luce di quanto scritto, è palese quanto la morale si fondi sul concetto che ormai chiunque abbia il diritto di cambiare il mondo. Basta solo avere il potere economico per farlo. E con un pizzico di orgoglio possiamo dichiarare che questo concetto non valga per il golf. L’Arabia Saudita dovrà farsene una ragione, il progetto della Superlega pare naufragato prima ancora del suo varo.