Vi raccontiamo la folle storia di Maurice Flitcroft, il peggior golfista del mondo che riuscì a ingannare l’Open Championship e diventare una leggenda.


C’era una volta, nel grigio nord dell’Inghilterra, un uomo armato di sogni e bastoni da golf comprati per corrispondenza. Si chiamava Maurice Flitcroft, aveva 46 anni, faceva il gruista a Barrow-in-Furness, non aveva l’handicap di gioco e non aveva mai fatto 18 buche complete in vita sua. Ma nel 1976 decise che era arrivato il momento di diventare leggenda. E lo fece a modo suo, tentando di qualificarsi per il torneo più blasonato del Regno Unito, l’Open Championship.

Quando si presentò sul tee del Formby Golf Club, la scena era degna di un film del miglior Woody Allen. Scarpe di plastica, cappello da pesca, dentiera traballante e un set di ferri così modesti che probabilmente erano già vintage all’epoca. Il suo compagno di gioco, un certo Jim Howard, ancora ricorda quel primo swing con un misto di orrore e fascino: “Sembrava stesse cercando di uccidere qualcuno”. 

Il risultato? Un colossale 121, ben 49 sopra il par. Il peggior score nella storia delle qualificazioni del major britannico e, per fortuna, mai più eguagliato. 

Al termine del giro i media si divertirono con titoli come “L’intruso del Secolo” o “Un incapace al British Open: un imbroglione se ne prende 121”.

Ma non finisce qui. Perché se la performance era stata tragicomica, la reazione dell’establishment fu pura tragedia shakespeariana. Quando il Royal&Ancient scoprì che Maurice si era autodefinito “professionista” spuntando una casella sul modulo così, senza farsi troppi problemi, fu il panico. Sir Keith Mackenzie, il segretario di allora, non la prese benissimo anzi, dichiarò guerra. Da lì iniziò una sorta di commedia a puntate, un duello epico tra il rigore british dell’élite del golf e l’imperturbabile ostinazione di un gruista sognatore. Maurice tentò più volte di rientrare nelle qualificazioni, ogni volta con un nome e un travestimento diverso. Gene Pacecki con baffoni e occhiali da sole, James Vangane col cappello da cacciatore e Gerard Hoppy con l’aria di uno che la buca la vedeva doppia, ma solo per via della miopia. I funzionari del torneo arrivarono persino ad assumere un esperto di calligrafia per smascherare le sue iscrizioni.

Nel 1980 si superò. Deciso a partecipare al torneo di Gullane, arrivò la sera prima con suo figlio James e montò la tenda nel buio totale, convinto di essere in mezzo alla campagna scozzese. Al risveglio, però, trovò un piccolo esercito di poliziotti attorno a sé. Aveva piantato la tenda sul fairway della 18. 

La fama di Flitcroft, con il suo swing improbabile e l’animo romantico, arrivò addirittura oltre oceano conquistando i cuori del popolo americano. Negli Stati Uniti nacque persino il “Maurice Gerald Flitcroft Member-Guest Tournament”, un Invitational surreale con buche extra-large e due bandiere per green. 

A raccontarne le gesta ci pensò lo scrittore Scott Murray, autore del libro “Il Fantasma dell’Open”, che lo descrisse così: “Flitcroft  apparteneva a quella generazione che lasciava la scuola per lavorare in fabbrica, e che non osava sognare troppo in grande”. Ma Maurice, con la sua dentiera e il suo sogno impossibile, osò eccome.

Perché il golf, come la vita, non è solo tecnica e talento. È anche follia, perseveranza e la capacità di prendersi poco sul serio mentre si sfida l’impossibile. Flitcroft non vinse mai nulla, ma ci lasciò la storia più assurda, tenera e umana che il nostro sport abbia mai visto. E allora, mentre oggi si discute di dati biometrici e di rollback delle palline per ridurne la distanza del volo, un pensiero va inesorabilmente a lui, il peggior giocatore di sempre, che osò disturbare il tè delle cinque del golf inglese con un fragoroso “FORE!” e il cuore pieno di sogni.