Da tutti definito un bravo ragazzo, Harold Varner III non ha paura di schierarsi a favore delle minoranze.

Sempre in prima linea, è pronto aiutare con la sua Fondazione, la HV3 Foundation, i bambini meno fortunati dando loro l’opportunità di trovare, attraverso lo sport, il proprio posto nel mondo.

Uno spirito gentile e premuroso, una laurea in marketing e una solida amicizia nientemeno che con Tiger Woods e Michael Jordan, i suoi idoli, dai quali trae sempre proficui insegnamenti. 

Harold come ti sei avvicinato al golf?

È stato mio padre a coinvolgermi, portandomi con sé un pomeriggio di 28 anni fa al Gastonia Municipal Golf Course, oggi conosciuto con il nome di Catawba Creek. All’epoca avevo due anni e ricordo che mi ero cimentato con piccoli bastoni di plastica della Fisher-Price. A dieci ho ricevuto il primo set di ferri e da quel momento non mi sono più fermato…

Un ragazzino di colore nella Carolina del Nord che gioca a golf. Harold hai subìto atti di bullismo o razzismo?

Assolutamente no, mai avuto problemi. Ho frequentato il North Carolina Junior College e in tutti quegli anni non mi hanno mai preso in giro o denigrato, anzi. È stato un periodo bellissimo, dove ho consolidato le mie più grandi amicizie. Ho legato subito con i ragazzi della squadra di golf e insieme siamo arrivati secondi al campionato nazionale dei college americani, perdendo solo al playoff. Con tutto quello che si sente in giro sono sempre stato fortunato e apprezzato nonostante il colore della mia pelle.

Sul PGA Tour Harold hai la reputazione del “bravo ragazzo”. Cosa pensi al riguardo? 

Penso che essere gentili al giorno d’oggi significhi semplicemente avere rispetto per le persone. O per lo meno, questo è quello che mi hanno insegnato mia madre e mio padre. Bisogna trattare chi si ha di fronte nel modo corretto ed essere cortesi, mai mostrarsi arroganti e saccenti. Dal documentario “Last Dance” su Michael Jordan e i Chicago Bulls ho tratto una lezione fondamentale: bisogna essere pronti a imparare sempre qualcosa di nuovo da chi è più maturo e grande di te.

(Photo by Gregory Shamus/Getty Images)

Questo ci porta a Tiger Woods. L’hai sempre considerato un eroe? 

Assolutamente sì, l’ho sempre ammirato. È stato il più forte giocatore del mondo, alcuni dei suoi colpi rimarranno per sempre impressi nella mia mente. Non è stato di ispirazione solo per i ragazzi di colore che si volevano avvicinare al golf, ma è stato in grado di coinvolgere e segnare indelebilmente un’intera generazione di golfisti.

Oltre a un rapporto di stima siete anche ottimi amici? 

Posso dire con orgoglio che è proprio così. L’ho conosciuto la prima volta nel 2017 durante un suo evento e ammetto che trovarmelo davanti mi ha terrorizzato. Essere accanto alla persona che più di chiunque altra ti ha involontariamente spronato a fare sempre meglio ti lascia una sensazione strana. Da subito però c’è stata sintonia. L’anno successivo l’ho dovuto inseguire per riuscire a giocare con lui e finalmente, a The Players Championship del 2018, abbiamo fatto due giri di prova campo insieme. Da lì l’amicizia si è rafforzata ogni giorno di più.

Qual è il miglior consiglio che ti ha dato?

“Fai il tuo gioco. La vita è tua, non seguire la massa o copiare gli altri. Il viaggio che hai intrapreso appartiene solo a te e qualunque cosa tu decida di fare, falla e basta, senza guardarti indietro”. 

Sei molto amico anche di Michael Jordan, corretto?

Sì, l’ho conosciuto appena prima di firmare con il brand Jordan e con la Nike, diventando il secondo golfista, dopo Keegan Bradley, a indossare il suo marchio. Da grande appassionato di golf mi ha subito chiesto di giocare insieme e da quel momento è partito tutto.

Anche la leggenda dell’NBA ti ha dispensato utili consigli? 

Certo, mi ha sempre detto di essere equilibrato e rilassato. L’importante nella vita è avere il controllo della situazione e non lasciare che questa prenda il sopravvento su di te. 

Dopo tutti gli insegnamenti e gli ultimi buoni piazzamenti registrati sul PGA Tour, pensi che il tuo gioco Harold sia passato a un livello successivo?

Il mio gioco è sempre stato buono ma non sono mai stato regolare e costante. Arrivare in cima alla classifica e gestire la pressione è stata una nuova sensazione con cui relazionarmi. A volte non si sa bene come comportarsi e si finisce per prendere decisioni sbagliate. Bisogna solo imparare a rilassarsi, rallentare e prendersi il ​​proprio tempo. 

Parliamo di George Floyd: dopo la sua morte molte personalità dello sport e dello spettacolo hanno detto la loro sulla vicenda. Qual è la tua posizione? 

In verità non volevo esprimermi, ma ormai la società lo richiede. Se sei una persona di colore devi per forza dire la tua, soprattutto se hai dei profili social. Ritengo che quello che è successo a George Floyd sia un omicidio senza senso. Non nascondiamoci dietro un dito e fingiamo che la brutalità della polizia sia appena iniziata, abbiamo sempre saputo cosa stesse accadendo. Tutto questo orrore viene adesso solo portato alla luce più facilmente attraverso i video con i cellulari e i social media. 

Essere di colore in America porta spesso alla discriminazione e alla violenza. Ecco perché ho accettato di schierarmi in prima linea e metterci la faccia, nella speranza che il mio piccolo contributo possa aiutare a migliorare le cose per le future generazioni.

Tuo padre Harold non ti ha mai fatto il classico “discorso” su come un ragazzo di colore si debba comportare con la polizia?

No, non l’ha fatto. Mi ha invece messo nella condizione di imparare a comportarmi e distinguere il bene dal male. Ho avuto anch’io un incontro ravvicinato con le forze dell’ordine, come quasi tutti i ragazzi adolescenti americani, ma l’importante è usare sempre la testa, limitando l’aggressività.

Si parla molto di cosa il golf potrebbe fare in termini di diversità. Perché dopo tutti questi anni che Tiger, un giocatore di colore, è entrato in scena, solamente tu, Cameron Champ e Joseph Bramlett siete gli unici giocatori di origine afroamericana sul PGA Tour? 

L’ho sempre detto e non smetterò mai di ribadirlo: il problema è l’accesso. È molto più facile far rimbalzare un pallone da basket che giocare a golf. E fino a quando ciò non cambierà e non si darà la possibilità a tutte le classi sociali di provare questo sport, giocheranno solo coloro che se lo potranno permettere. La mia Fondazione, la HV3 Foundation, lavora proprio su questo. Desidero che i bambini più svantaggiati e in difficoltà abbiano le stesse opportunità, o almeno gli stessi mezzi, di un ragazzo cresciuto in un country club. E questa scuola di pensiero sta piano piano entrando nelle teste delle più alte sfere del golf professionistico. 

Sono certo che in futuro vedremo molti più giocatori afroamericani sul Tour. Ho spesso parlato con Jay Monahan, il commissario del PGA Tour, ed è stato molto collaborativo. Il golf sta andando nella giusta direzione, bisogna solo avere ancora un po’ di pazienza.