Domenica 13 aprile 1986 Jack Nicklaus gioca il quarto giro del suo 28° Masters in carriera. È nono, con due colpi sotto il par, a quattro dal leader dopo 54 buche, Greg Norman.

Ha 46 anni, due mesi e 23 giorni. Nel suo armadio brillano già cinque Giacche Verdi: la prima è datata 1963, la quinta 1975.

Di major ne conta addirittura 17, l’ultimo in ordine di tempo il PGA Championship del 1980. Nessuno nella storia del golf può vantare questi numeri ad Augusta e nei tornei del Grande Slam.

Solo Sam Snead gli resiste ancora, dall’alto dei suoi 82 titoli sul PGA Tour, dieci in più di Jack.

A portargli la sacca quella domenica di aprile c’è suo figlio, Jackie Junior, che sarà testimone diretto di una delle più straordinarie imprese sportive di tutti i tempi.

Nicklaus gioca come un angelo, gira le ultime 9 buche in 30 colpi ed entra nella leggenda dalla porta principale, quella del Masters, il torneo che più di qualunque altro sente suo.

Uno a uno si inchinano tutti, l’ultimo è il nuovo talento del golf mondiale, Severiano Ballesteros. Tocca a Bernhard Langer, campione uscente, l’onore di far indossare a Nicklaus la sua sesta Green Jacket.

Quell’iconico successo, il 18° in un major e il 73° sul PGA Tour, sarà l’ultimo della straordinaria carriera dell’Orso d’Oro sul principale circuito statunitense.

Ma il suo feeling speciale con l’Augusta National non è mai venuto meno, anche successivamente.

Nel 1988, a 58 anni, chiuse il Masters al sesto posto, nonostante un fastidioso dolore all’anca. Il suo score di 283 colpi, cinque sotto il par, è ancora oggi il più basso mai ottenuto da un giocatore over 50 nel torneo.

Tra il primo (U.S. Open 1962) e l’ultimo dei suoi 18 major c’è di mezzo un quarto di secolo, 25 anni di titoli e gloria che lo hanno consacrato come il più grande giocatore che il golf avesse mai visto. Prima dell’avvento di Eldrick Tont Woods, in arte Tiger.

Dal 1997 al 2019 Woods ha ribaltato ogni assioma golfistico esistente, facendo traballare il regno di Jack Nicklaus.

Come l’Orso d’Oro anche Tiger ha un rapporto mistico con l’Augusta National: qui ha vinto dominando il suo primo major e proprio su questi green, a 22 anni di distanza, ha ottenuto nel 2019 il suo 15° titolo dello Slam e la sua quinta Giacca Verde.

Se Nicklaus si è poi fermato a quel leggendario successo del 1986, Tiger è invece andato oltre, agganciando Sam Snead a quota 82 successi con il titolo dello Zozo Championship nell’ottobre del 2019.

La pandemia da Covid ha di fatto cancellato la primavera 2020, relegando il Masters di questa stagione in autunno per la prima volta dal 1934.

Non ci sarà il pubblico quindi, uno degli elementi cardine della magia di questo torneo, così come mancheranno gli sgargianti colori della primavera georgiana a rendere le 18 buche dell’Augusta National un palcoscenico da favola.

Ma i temi di questa 84esima edizione sono tutt’altro che dimessi, anzi.

Quando l’impresa sembra sulla carta una missione impossibile come in questo caso, Tiger è capace di entrare in modalità felina e ribaltare qualsiasi previsione.

Il profumo del sesto successo ad Augusta è fortissimo, il primo aggancio a uno dei due storici record di Nicklaus a tiro.

Confermarsi a un anno e sette mesi di distanza dal suo capolavoro sportivo dello scorso anno non è quindi un’assurda fantasia: nessuno come lui conosce alla perfezione ogni angolo e ogni colpo necessario per arrivare domenica pomeriggio in lotta per il titolo.

Nessuno come lui sa gestire la pressione di quelle ultime fatidiche 9 buche finali.

Jack e Tiger hanno in comune questo istinto killer che li ha resi leggenda, quella capacità di esaltarsi anziché bloccarsi di fronte ai momenti chiave, quelli che scrivono la storia.

Nel 2021 Tiger Woods verrà finalmente inserito nella prestigiosa World Golf Hall of Fame, il più alto riconoscimento golfistico mondiale.

Un premio doveroso a una carriera già straordinaria prima ancora di scrivere la parola fine. Per quella c’è ancora tempo: a quasi 45 anni la caccia all’Orso d’Oro è tutt’altro che chiusa.