La definizione che più si addice al golf credo sia “magnifica ossessione”.

Come spiegare altrimenti il trasporto con il quale il golfista parla delle sue imprese in campo, la pignoleria con la quale cura particolari che a un occhio inesperto apparirebbero marginali  (“Non avrò mica messo nella sacca i tee gialli? Quelli portano rogna…”).

Oppure, la pervicacia con la quale tenta di correggere uno slice che sembrerebbe scritto nel patrimonio genetico, l’illusione che lo spinge a continui pellegrinaggi tra un pro shop e l’altro alla ricerca del driver che gli consenta, finalmente, di lasciare a qualche metro di distanza il perfido dottor Pirlimpacchi, che a vederlo swingare provi pure compassione, ma poi, crudele, ti distanzia di metri e metri a ogni tee di partenza.

Il confine tra la “magnifica ossessione” e la patologia conclamata è infido e sottile. C’è chi, dotato di sano senso dell’autoironia, riesce a prendersi in giro per questa sua “golfite” galoppante e in gara – all’ennesimo rattone – si rincuora da solo, osservando che se davvero fosse capace di giocare a golf a buoni livelli, non sarebbe a fare la Coppa delle Castagne, ma impegnato su altri e più ostici circuiti.

E cerca di suggere le stille di allegria che 18 buche riescono a regalare anche a chi sta giocando disastrosamente.

L’incubo del golfista nostrano non è, però, il socket e neppure la flappa, cui è stato fatto un callo precoce, quanto la virgola, quella specie di corvo spietato che volteggia sulla testa dello sbordatore irriducibile, dello slice addicted, del rattonatore incorreggibile.

La maggioranza dei giocatori di club vive l’innalzamento di handicap come una tragedia, dimenticando che è invece un benevolo aiuto fornito dagli dei del golf a chi, con le sue forze, 18 buche in par non le giocherà mai.

E che se i professionisti si impegnano nella “Race to Dubai”, a noi zappatori è riservata la “Race to comma”.

E che in fondo è divertente anche questa.  Ho però recentemente imparato – e qui siamo a cavallo tra l’ossessione e la truffa – che c’è chi la virgola la insegue con subdola tenacia.

È il caso – me lo hanno raccontato qualche giorno fa – di un signore che, partenza fra gli ultimi team, al momento del ritiro dello score in segreteria segnala che in mattinata aveva già preso parte a una gara in un altro Circolo, ma che aveva abbandonato dopo qualche buca per arrivare in tempo all’altra partenza.

Come ben sanno i virgolofobi, segnare NR sullo score equivale ad autoinfliggersi l’orrendo segno di interpunzione.

In questo modo, però lo 0,1 di handicap in più, per quelle misteriose alchimie aritmetiche dell’Ega, gli ha consentito – caso o astuzia perversa? – di sfruttare un colpo in più sul percorso che andava ad affrontare.

E in pochi se ne sarebbero accorti, se non fosse che, proprio grazie a quel colpo, il signore in questione ha vinto la sua categoria e, con il premio, pure il diritto di partecipare a spese degli organizzatori alla finale in terra straniera e ospitale.

Il problema, naturalmente, è capire se nel comportamento del giocatore ci sia stata della premeditazione oppure, come ritengono gli innocentisti, solo una bulimia golfistica che gli ha fatto tentare la doppietta, salvo poi arrendersi per manifesta mancanza di tempo.

Ma il solo fatto che ci si interroghi sull’accaduto dimostra che atteggiamenti del genere non sono merce rara nel mercato golfistico italiano.

“Omnia munda mundis”, diceva uno che la sapeva molto più lunga di me, volendo significare che tutto è pulito per chi è puro di cuore. Io mi limito a sottolineare che se qualcuno ha pensato a una virgola premeditata, evidentemente è abituato a ragionamenti aritmetico sportivi che, mi auguro, la maggior parte dei golfisti beatamente ignora. Vorrei, sul tee di partenza, avere sempre a che fare con quest’ultima categoria di giocatori.

Ma un altro personaggio che in materia sapeva il fatto suo affermava con convinzione che “a pensare male si fa peccato, ma molto spesso si indovina”. Vuoi vedere che anche Andreotti giocava a golf e noi non lo sapevamo?

mdalfior@alice.it