Le storie a volte lo fanno: finiscono.

La notizia dell’ennesima e improvvisa operazione alla schiena di Tiger Woods cala sulla terza giornata dell’Open d’Italia come una mannaia a falciare le ultime speranze di rivedere al top un ineguagliabile campione.

È stato operato al solito disco vertebrale giovedi 17, ma solo ieri, mentre su Monza le prime ombre della sera erano scese da un pezzo, se ne è avuta la conferma.

Ritornerà in campo non prima del 2016, privandoci così di un ennesimo autunno in cui avevamo avuto per un momento la speranza di rivederlo in azione.

E così, mentre sul Golf Milano si fanno i conti con un leaderboard (dopo 36 buche) sciapo e con poche vibrazioni azzurre, la notizia, come da vent’anni a questa parte, ancora una volta la fa Tiger.

E la notizia, signori miei, è più che altro un mesto tirare le somme: con un fisico usurato, anche la mente si scopre usurata.

Inutile raccontarsi le favole della buona notte o crogiolarsi in aspettative rassicuranti: qui non c’è nulla che possa dissolversi in una bolla di fiducia appagante.

Qui, piuttosto, servono chili e chili di senso pratico.

E il senso pratico, soprattutto a noi che in questi giorni siamo a pochi metri dall’autodromo di Monza, ci ricorda che quando il motore di una formula 1 si rompe, la gara è finita.

Vedete: Tiger Woods è stato per due decenni una rombante Ferrari tirata a lucido e lanciata al massimo in modalità martello su un rettilineo senza orizzonte.

Fisicamente e mentalmente. Ha giocato a gas aperto e con il piede sempre premuto sull’acceleratore.

Ha conosciuto improvvise sterzate e frenate inaspettate, ma poi ha sempre ingranato la prima ed è ripartito a razzo.

Questa volta no.

A dire il vero i segnali di un stop ai box erano già abbastanza evidenti nel corso della stagione: i colpi sbilenchi che nemmeno Lassie sarebbe stato in grado di rintracciare erano segnali di un allenamento scarso probabilmente teso a preservare il fisico più che ad affinare lo swing; il backswing sempre più corto indicava inesorabile l’età che avanzava e soprattutto l’usura della schiena.

Ora: l’esperienza e la storia insegnano che un campione è un binomio perfetto di corpo e mente che lavorano in sincrono assoluto: limita il primo e limiterai la seconda.

È un peccato, ma è così. Ma d’altronde le storie a volte lo fanno: finiscono.